Recensione di Massimo Piermarini, docente universitario, scrittore e filosofo
“Sogno di un cigno” è un testo-labirinto, fuori da ogni genere, centrato sulle esperienze vissute e su un percorso “iniziatico” che conduce dalle tenebre della banalità al chiarore aurorale di una illuminazione progressiva, intensa, carnale. Si definisce nel sottotitolo “viaggio onirico” e lo è realmente, ma soltanto nel significato delle visioni delle religioni iniziatiche di Iside e Osiride: al termine del viaggio ci sarà una trasmutazione, che nel caso del testo di M. Carlucci, è una rinascita, una rigenerazione nel segno di una immersione dell’anima nella sfera cosmica. E’ anche una musica, soprattutto una musica quella che ci afferra, ci seduce e ci guida nel sentiero dell’anima. Da dove viene questa musica? Nasce da un armonia o da un caos? Il rinvio ai simboli accentua in carattere di viaggio onirico, perché la materia dei sogni, diceva in maestro Freud, sono i simboli.Il luogo della liberazione, la sua prospettiva, è un panorama, un parco oltre il cancello, un racconto nutrito di desiderio e sul desiderio, che apre ad un percorso iniziatico di rivelazione di un’occulta sapienza magica (rosacrociana). Il distacco e la caduta nell’abisso costituiscono l’elevazione ascetica dell’esperienza di Miriam, la protagonista o io narrante del testo. Il diario si fa confessione, la confessione trasformazione : “La “rosa mistica” è qui turbine e attrazione, è pura fonte di luminosa linfa, d’eterica sostanza inestinguibile, di vita mondata dal peccato e versata dall’anima del mondo al corpo-anima di una donna che inconsapevolmente rinuncia a sé”. Il Diario di Miriam non ha nulla dello spessore teologico delle Confessioni di Agostino, o della curvatura psicologica delle Confessioni di Rousseau. Somiglia, per certi verso, alla Confessione di Tolstoi, cioè ad un’autobiografia spirituale iscritta in una disciplina di esperienza. Miriam è la persona cui è assegnata la sorte di morire prima di morire, di superare il limite, e poter così raggiungere l’immortalità, attraverso un’altra concezione, che “può mutare il corpo in corpo puro e libero da atavici castighi”. Un esodo, un volar via, che segna un distacco e un ritorno, un viaggio orfico le cui dimensioni diventa impossibile misurare e determinare. Cancelli e giardini oltre il varco prefigurano straordinarie esperienze. Veramente leggendo questo testo sembra di assistere alla rivelazione dei misteri di Novalis...dei Discepoli di Sais...cui il testo somiglia anche come struttura, un corpo di frammenti e di abbozzi, una linea sotterranea rotta in superficie da mille lesioni, mille increspature, mille riflessi della stessa luce…una fiaba, infine, che contiene un diario di dolore che nutre un percorso di trasformazione. L’appartenenza è una terra di affetti da cui liberarsi per poi ritrovarla, alla fine del viaggio. Radicamento e sradicamento non sono alternativi, ma componenti dello stesso cammino. “Mi chiedo in quale luogo sia l’inizio che si dirama in tante direzioni, dov’è l’originaria terra prima che poi si perde in trame di misteri”. Echi neoplatonici e misteri esoterici in una prosa barocca, gonfia ed elegante come una carrozza nel giorno di festa. Il paesaggio esterno esplorato diventa paesaggio interno, come la crisalide farfalla. “Lascio il Tempo se il Tempo mi lascia, se mi porta lì dove l’ho perso, se m’incanta la luce d’un cielo che appare più terso. Altri fiori se guardo più avanti, e felice ma come perduta, sento il vento tra foglie oscillanti, qualcosa che muta. Corrispondono suoni tra i rami, tra le foglie simmetrie forme ed è fresca la brezza leggera nel parco che dorme”. Librata sopra il tempo, si dipana una storia di esperienza che è insieme e contemporaneamente sospesa e in corso: “Lascio il Tempo se il Tempo mi lascia, se mi porta lì dove l’ho perso, se m’incanta la luce d’un cielo che appare più terso”. La prosa si scioglie in poesia, nella voce del canto. Di fronte ad un piccolo specchio lacustre, Miriam, l’io narrante, guidata da una figura “gentile”, si immerge nel riflesso di un cigno che si specchia nell’acqua. La prosa poetica della Marcucci assume qui il tono ieratico e sacrale dei versi aurei pitagorici. E’ una guida dell’anima quella che Miriam segue nel suo oltrepassare l’esperienza comune, nella sua trasformazione? I suoi slanci e le sue soste sono l’applicazione di regole della disciplina celeste? Non lo sapremo mai. Resta soltanto l’esperienza a dirci della rottura e della congiunzione, dell’esilio e del ritorno. “Infiniti volti del mare e che conosce mutamento e quiete, viaggio e ricerca di una sosta, finalmente approdai alla nuova dimora. La casa da non condividere, da non colmare, mi accolse con luminosa vista sul parco; divenne il mio luogo di quiete” L’esistenza di Miriam è presa, ormai, dal verso contrario, come un riflesso nell’acqua. Si disloca in un altro tempo, nel passato di una dimensione di specchio. Questa inversione è un raddrizzamento e una scoperta del mondo vero. “Il vento si alza ancora e i fogli vanno la pagina che si apre mostra un nome lo leggo lo ripeto riconosco la firma mentre sento tornare la vita dal verso contrario” Parco e casa sono dunque luoghi dell’anima e stazioni del percorso. Il paesaggio si articola in un villaggio sui colli dal quale Miriam osserva la sua vita, contempla il suo divenire (“forse sono nel sogno di un cigno e contemplo il mio lento fluire...”). L’incontro con la rosa di trasparente opale cambia tutto: “percezioni nitide e aperture di tinte e spazi d’ altre immensità. Solo adesso comprendo: la linfa che sgorgò dalla mia rosa era Anima Mundi. Sapevo di quest’esito”. E’ la sostanza cercata “in ogni tempo, da erboristi e filosofi, scienziati ed alchimisti, da maghi ossessionati all’idea che la Natura nascondesse un segreto chiamato quintessenza: elemento che non disfa e non si disfa in corpi condannati a invecchiamento, a dolore e continui bisogni”. Gli eventi e l’idillio consumato con Hermann preludono all’abbandono e allo straniamento. Nella trama testuale la poeticità si concentra e si intensifica a partire dal capitolo Rivelazione. L’aspersione di un’acqua di purezza attinta ad un pozzo rappresenta una nuova, straordinaria esperienza: “...mi sgravò da tempo e invecchiamento. Mi liberai da un peso, dai corsi del peccato, e senza opporre forza o gravità mi riconobbi parte del Sublime”. “Libera, liberata dal senso di colpa ero bella e leggera come mai lo ero stata.” La scrittura si fa sempre più ermetica, appesa ad un tenue filo narrativo diventa mappa di esperienze, carta di viaggio e visione di un’esplorazione ancora in corso, nel tempo inverso di una continua rigenerazione (“Il Tempo che avvizzisce le altre vite ti dà vigore e splende su di te come se non scorresse, o come se scorresse in altro verso”. Si incontrano corpi del mistero sfiorati, levitazioni (“vidi il tuo vestito fluttuare in un biancore gonfio d’aria. Eri come una silfide, spostavi con le braccia invisibili onde..”, ectoplasmi e immagini che sfumano, incontri e abbandoni, sacrificio ed elevazione. Gli accenti sono simili a quelli del protoromanticismo, del romanzo epistolare, della pagina goethiana, ma l’ardore è più intenso, raccolto in un segreto, in un messaggio cifrato, in un’esperienza che dilegua lasciando dietro di sé segni e simboli.
Massimo Piermarini